Rugby, Italia fuori dal Sei Nazioni

ROMA – “Italia fuori dal Sei Nazioni”: questa volta non sembra la solita provocazione inglese. L’ultimo articolo che formula dubbi sulla presenza degli azzurri nel torneo più antico del mondo, è stato pubblicato dal prestigioso Times di Londra qualche giorno dopo la conferma dell’inglese Bill Beaumont al vertice di World Rugby. Una coincidenza? Beaumont è stato rieletto coi preziosi – decisivi – voti italiani: “Il Sei Nazioni non si tocca”, ha subito chiarito. Ma ci sono buone ragioni per credere che l’organismo di governo dell’universo ovale voglia mettere pressione alla nostra Federazione e al suo movimento. Soprattutto in questi tempi, col coronavirus che rischia di mettere in ginocchio anche i giganti di questo sport (la Federazione inglese prevede un ‘buco’ da 122 milioni di sterline, e mette in conto di licenziare il 60% dei suoi dipendenti): “L’Italia in 20 edizioni ha vinto solo 12 partite su 103; nelle 2 partite del 2020 non ha segnato un solo punto, subendone 59: per il suo stesso bene, dovrebbe giocare con altre squadre (Georgia, Romania, Germania), e finalmente tornare a fare progressi”. Più chiaro di così: Stuart Barnes, che prima di fare il giornalista ha giocato 10 partite con la maglia numero 10 dell’Inghilterra – the Bath Barrel, il Barile di Bath, era il suo soprannome – è considerato “il commentatore che tutti amiamo odiare”. Un grande professionista e un tifoso della Rosa, considerato molto vicino a Beaumont.

Giovanelli: “Retrocessione? Ci può stare”

“Possiamo davvero dargli torto? Venti anni fa siamo entrati nel Torneo perché nelle 5 stagioni precedenti avevamo espresso un gioco tutto nostro, ottenendo dei risultati importanti. Eravamo credibili”. Massimo Giovanelli, storico capitano di quella squadra, spiega che col passare de tempo la credibilità – conquistata sul campo – è scivolata via, come sabbia tra le mani. “Siamo regrediti. Allenatori sbagliati uno dopo l’altro, a parte la breve parentesi di Berbizier. Serviva una Federazione lungimirante, in grado di confermare il trend di crescita con investimenti strutturali nei grandi centri, un gioco collettivo riconoscibile. Invece”. Troppe sconfitte più o meno ‘onorevoli’, un gap che rispetto alle altre nazioni è andato allargandosi. “E allora dico che un Sei Nazioni che prevede la retrocessione dell’ultima classificata, ci può stare. Non penso che le altre perderebbero con scarti peggiori dei nostri. Un Sei Nazioni di seconda fascia, con la migliore che viene promossa, farebbe del bene a noi e al resto dell’Europa. La sfida e il premio in palio, farebbero aumentare la qualità. Perché il rugby sta continuando a crescere, World Rugby ad ogni mondiale fa più soldi e questo perché è una metamorfosi ambulante. Tutto cambia. Ve li immaginate gli investimenti della Russia, se avesse l’opportunità di giocare a Twickenham?”.

Bergamasco: “Che manfrina. Però, anche noi…”

Ha sempre detto che ”non accadrà” Alfredo Gavazzi, presidente Fir. Ma forse non basta sottolineare bellezza di Roma e della festa all’Olimpico (“Vuoi mettere con Tbilisi o Bucarest?”, il ritornello degli ottimisti cosmici), o il fatto che il contratto del Sei Nazioni – soci privati che gestiscono i loro affari come vogliono – scadrà nel 2024, però tanto ora arriva Cvc con una iniezione da 345 milioni di euro: l’accordo tra i 6 sindacati e il fondo di investitori è stato per il momento congelato a causa del Covid. Non sta scritto da nessuna parte che la partecipazione dell’Italia non possa essere messa in discussione. Anzi. Mauro Bergamasco, uno degli azzurri più iconici della nostra storia ovale, il refrain “Fuori dal Sei Nazioni” lo ha sentito tante volte. Troppe. “Da un lato, è la solita manfrina. Però anche vero che noi non abbiamo mai confermato le aspettative, e lavorato per essere bene accetti. Ci hanno sempre guardato con un po’ di sospetto, ma è chiaro che si fa tutto più complicato se in 20 anni sono mancati i successi”. Il ritorno al Cinque Nazioni o un meccanismo di retrocessione-promozione? “Non vedo altre squadre il grado di prendere il nostro posto. Rispetto tutte le opinioni, ma oggi l’Italia è dentro: e compete per la vittoria nel Sei Nazioni”.

L’orgoglio dei piloni azzurri

La prima meta italiana nel Torneo la segnò nell’esordio al Flaminio con la Scozia un pilone romano, Giampiero ‘Ciccio’ De Carli. Era il 2000. Oggi De Carli è responsabile della mischia azzurra. “E la storia che non ci meritiamo il Sei Nazioni è poco rispettosa di chi ha lottato tanto per arrivare a questo punto, e continua a farlo”. Ammette che sì: “E’ vero, non vinciamo una partita da 5 anni”. Ma sottolinea che la differenza con le Altre (Georgia, Romania, Germania) è enorme. “Se ci giocassimo contro oggi, gli rifileremmo 50-60 punti. Anche con la Georgia un anno fa sarebbe andata così, se non fossimo entrati in campo un po’ troppo nervosi”. Non avrebbe senso, essere cacciati. “Io mi confronto continuamente con i tecnici della altre 5 nazioni: e vi assicuro che ci stimano, ci temono, ci considerano avversari alla pari. Ai mondiali, il mio omologo del Sudafrica – che si è poi preso il titolo – mi ha confessato che prima del match contro di noi erano molto preoccupati, e ci avevano studiato a lungo. ‘Col materiale che avete a disposizione, fate un lavoro straordinario’, diceva. E allora, perché mai dovremmo fare un passo indietro?”.

Un altro pilone tra i più famosi, Andrea Lo Cicero detto ‘il Barone’, quasi perde la pazienza: “In questo momento così delicato, in cui tutti dovremmo essere solidali e a sostegno l’uno dell’altro – così come ci insegna il nostro sport -, Stuart Barnes è fuori luogo. Avrebbe potuto scrivere altre cose del rugby italiano, come il grande esempio che stanno dando tanti giocatori con le spese solidali o lavorando nelle pubbliche assistenze al servizio delle persone in difficoltà”. E’ vero: l’Italia non vince dal 2015, quel giorno il Barone era in campo. “Anni fa eravamo competitivi, tutti ci rispettavano. E se gli altri vincevano, se ne andavano comunque a casa con le ossa rotte. Poi purtroppo si sono persi tanti treni, a livello federale qualcuno dovrebbe riflettere: ma sono argomenti che affronteremo al momento giusto, non certo adesso”.

Ancora Giovanelli: “Io credo che quello del Times non sia un articolo casuale, ma un messaggio chiaro: i progressi fatti dal Giappone ce lo insegnano, si può cambiare marcia e ritornare competitivi. Altrimenti, il rischio – per noi che ci siamo addormentati sugli allori – è quello di rimanere fuori”, spiega. “Non so quanto torneremo a giocare, forse a gennaio. Nel frattempo, il Coronavirus può funzionare come detonatore per tutto il movimento: dobbiamo cambiare le prospettive, e farci trovare pronti quando sarà il momento di ripartire”.

Fonte: Repubblica.it

Autore dell'articolo: Redazione